Lettera n.007 - Eccesso di velocità
L'impatto della velocità sul giornalismo, la politica, il mondo del lavoro e sulle nostre vite.
Ho sempre pensato di volere la velocità. Auto più veloci, computer più veloci, spedizioni più veloci, consegne più veloci, relazioni più veloci… solo dopo mi sono accorto di non avere il freno, e di non sapere dove andare.
Il tema della Lettera da una civiltà in declino per questo febbraio 2022 è la velocità.
Tutti desideriamo la velocità, da sempre. Un mondo più veloce è considerato efficiente; nella valutazione di una performance professionale, scolastica o universitaria la velocità spesso gioca un ruolo importante; se possibile scegliamo mezzi di trasporto e soluzioni di viaggio veloci; nello sport, soprattutto nel calcio, performance strettamente atletiche di scatto e velocità spesso sostituiscono le skill, la visione di gioco; perfino nei manga i personaggi veloci spesso riescono a sopraffare nemici molto più forti, ma magari lenti.
Negli ultimi 20 anni - ma anche gli ultimi 10, perché no? - sono cambiate davvero tantissime cose, ma se c’è una costante che ha accompagnato le nostre vite e il nostro mondo è la ricerca di una sempre maggior velocità. Ricerca che, ammettiamolo, ha portato a ottimi risultati.
L’avvento soprattutto degli smartphone e della c.d. gig economy ha portato le nostre vite a livelli di efficienza e velocità mai visti prima: se ne dubitate, provate a pensare alla vostra reazione quando il vostro smartphone è molto lento, o avete a che fare con un computer non performante, o il rider con la vostra cena è in ritardo.
Avete notato qualcosa?
Ho parlato di lentezze che fanno innervosire. La lentezza di uno smartphone, di un computer, di un rider. Due macchine, nate per servire l’uomo, e un uomo, al servizio di altri attraverso una macchina.
In questa newsletter farò un elenco non esaustivo di alcune cose che risentono in modo particolarmente negativo dell’eccessiva velocità degli ultimi 10, 20 anni. Non esaustivo perché è una newsletter, e non vuole essere troppo lunga.
Probabilmente ci vorrebbe un blog, un sito, un podcast, un libricino o un portale dedicato. Anzi, se avete piacere scrivetemi, commentate questa newsletter qui o sui DM di Mangiasogni su Instagram e ditemi cosa ne pensate di questo argomento.
Ma intanto, iniziamo:
Il giornalismo e le fake news. Ne siamo bombardati ormai da anni, da quando Facebook ha smesso di essere il posto dove ritrovare i compagni delle elementari e ha iniziato a essere la punta di diamante del colosso distopico Meta. Le ragioni dietro le fake news sono tantissime: la diffusione di pensieri “alternativi”, l’eccessivo accesso all’informazione, l’effetto Dunning-Krueger per citarne alcuni. Ed effettivamente alcune soluzioni sono state trovate, come l’obbligo di riconoscimento quando si apre una pagina social, il badge che segnala se sei una pagina di satira, i progetti di fact-checking e debunking.
Il problema è che non sono solo malintenzionati o sciamani a propagare fake news, ma anche gli stessi giornalisti. Internet ha permesso la diffusione di notizie praticamente in tempo reale, soprattutto grazie a Twitter, e un giornale che non riesce a starci dietro fallisce nel suo compito di “stare sul pezzo”. Per questo dire qualcosa velocemente è diventato più importante di dire cose corrette, tanto poi c’è sempre la possibilità di rettificare. Chiaramente però, tra la diffusione della notizia e il momento della rettifica - notoriamente meno forte e impattante - la notizia ha modo di girare, propagarsi, suscitare indignazione e sgomento, produrre conseguenze enormi e magari anche rovinare vite;
La politica. Veniamo dallo spettacolo impietoso dell’elezione del Presidente della Repubblica, e per la seconda volta di fila assistiamo a un doppio mandato Presidenziale, non previsto dalla Costituzione oltre che dai piani personali del Presidente uscente (e rientrante). E’ chiaramente l’ennesimo sintomo di una classe politica e dirigente sofferente, incapace non solo di trovare risposte ma anche di trovare domande, cioè temi importanti su cui battersi e persone che siano in grado di incarnare quelle battaglie, ricoprendo ruoli di responsabilità (segnalo Mieli sul Corriere).
Indubbiamente “l’effetto Twitter” fa la sua parte. Siamo tutti accelerati, impazienti, in grado di esprimere ogni nostra opinione politica in tempo reale, e questo vuol dire che i politici vivono in una situazione di eterna campagna elettorale. Non c’è più bisogno di aspettare elezioni e sondaggi quando in ogni istante i cittadini possono esprimere pareri sul tuo operato e far salire alla ribalta argomenti che improvvisamente diventano importantissimi e su cui ogni politico deve prendere posizione. Questo vuol dire che i politici, ossessionati dall’idea di inseguire il consenso a brevissimo termine, non hanno lo spazio e le energie per affrontare temi che richiederebbero riflessioni più ampie.
La cosa diventa particolarmente pericolosa per noi giovani. Temi come l’ambiente, la redistribuzione, l’equità generazionale, le pensioni, l’inserimento dei giovani nel lavoro, richiedono sforzi immediati per risultati futuri. In un mondo così accelerato, fatto di tendenze istantanee e elettori/consumatori impazienti, quale politico correrebbe il rischio di adottare misure impopolari oggi promettendo risultati tra 10, 20 o 30 anni? Al momento, nessuno.
Il lavoro. Clienti impazienti, capi impazienti, recruiter che ti vogliono laureatissimo a 22 anni e con esperienze incredibili alle spalle. Sembra che nessuno sia più in grado di aspettare, generando un folle clima di fretta e frenesia da cui ben pochi riescono ad uscire. Anche qui, dei responsabili sicuramente sono facili da trovare, ma sono certo che ce ne siano molti altri nascosti chissà dove.
Amazon e la sua ossessione al cliente, i servizi di food delivery, gli strumenti sempre più performanti nella nostre mani. Quando l’attenzione per il cliente e per le consegne rapide diventa ossessiva, crei un’aspettativa molto pericolosa, e soprattutto un modello da imitare per non sparire. Le aziende, davanti all’efficienza disumana di Amazon hanno due scelte: provare a lottare o sparire. Ed ecco che la grande intuizione di Bezos, cioè di fornire consegne estremamente rapide e servizio clienti perfetto, è diventata il modello del nostro mondo del lavoro. Per non deludere clienti, fornitori, superiori e colleghi siamo tutti chiamati a districarci in un clima di urgenza costante che in realtà di urgente ha ben poco, se non soddisfare un appetito per la velocità sempre più insaziabile. Se poi il tuo lavoro è letteralmente soddisfare l’appetito di chi sta a casa in attesa del suo Crispy McBacon, il burnout è dietro l’angolo.
L’uomo-macchina. Questo è un altro tema che trovo tremendamente affascinante, su cui magari tornerò con più calma - su una newsletter dedicata, magari.
La velocità colpisce il nostro giornalismo, la nostra politica, il nostro modo di lavorare, ma colpisce soprattutto noi. Non sono un antropologo e non ho idea di cosa verrà dopo l’homo sapiens sapiens, ma la velocità a cui siamo spinti sta diventando insostenibile sotto moltissimi punti di vista che non riguardano solo la società in cui viviamo, ma anche noi. Stanchi, stressati, depressi, terrorizzati dall’idea di restare indietro, chiusi nel limbo tra dover correre fortissimo e poi non avere nessun guardrail che ci salvi dallo schianto. Più che umani siamo aziende, con obiettivi annuali da soddisfare, piani pluriennali di crescita a cui attenerci, parametri da seguire, aspettative da non deludere.
Come vi dicevo, sono davvero tanti i riflessi che questa velocità estrema ha sulle nostre vite, e non tutti sono immediati. Sono certo che ce ne siano molti altri su cui avrei il piacere di confrontarmi con voi.
La domanda a questo punto sorge spontanea: che fare?
Come al solito, le soluzioni si dividono in due tipi: individuali e collettive.
Le soluzioni individuali sono secondo me molto più semplici perché riguardano una sola persona, o magari poche persone, e non mettono seriamente in discussione gli equilibri di denaro, potere e stile di vita che sorreggono il nostro mondo. Un esempio classico è il “mollo tutto, mi faccio un orto nei boschi e vivo di quello”. Poche persone possono farlo, se vogliono e riescono, molte?
Una soluzione individuale che ho adottato per me è quella di riscrivere il concetto di bisogno.
Ho bisogno che quella cosa che ho ordinato mi arrivi in un giorno? Ho bisogno che il cibo mi arrivi direttamente a casa? Ho bisogno di servizi clienti immediati 24 ore su 24? Ho bisogno di avere tutto e subito?
La risposta, ovviamente, è no.
Soluzioni collettive ovviamente sono di difficoltà estrema, e richiederebbero uno sforzo culturale decennale appoggiato e sostenuto dalle stesse persone che da questo sistema traggono giovamento, ovvero sia le aziende che noi in quanto consumatori ed elettori/consumatori.
Per tutte le cose che richiedono molto tempo c’è sempre lo stesso dilemma: e nel frattempo?
Credo di essermi dilungato più del previsto, e allo stesso tempo di aver detto molto meno di quanto avrei voluto. Non so se anche questo contenitore delle Newsletter sta diventando un po’ troppo stretto. Fatemi sapere cosa ne pensate, e come sempre vi lascio qui il mio link ko-fi se avete piacere di finanziare questa campagna di esplorazione nel Regno del Male.
Tema interessantissimo su cui dovremmo tutti fermarci e riflettere dal momento che sembra che il mondo non abbia alcuna intenzione di rallentare... sarebbe interessante trattare il punto sull'obsolescenza di beni e forza lavoro, come la velocità del cambiamento continuo impatti il nostro modo di percepire la realtà